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Intervista per Different Magazine

 A cura di David Taglieri

Maria Ludovica Franchini è psicologa e libero professionista. Si è specializzata nell’area dello sport attraverso la guida e il supporto degli atleti nel percorso che va nella direzione dell’eccellenza e dell’ottimizzazione delle risorse interne degli uomini e delle donne.

Rilassamento e pensiero positivo sono le chiavi della sua azione.

  • Buon pomeriggio Maria Ludovica ci parli delle specificità del tuo ruolo?

Buon pomeriggio David e grazie per avermi offerto l’opportunità di condividere la passione per il mio lavoro e il significato profondo dell’attività che svolgo.about:blank

Come psicologa del lavoro e delle organizzazioni e psicologa dello sport, mi occupo di preservare il benessere della persona, ottimizzare le sue performance e valorizzarne il potenziale. In ogni campo: professionale, sportivo, privato.

Amo, infatti, contaminare i diversi mondi: lavoro, sport, vita con le stesse strategie e tecniche cognitivo-comportamentali che ci offrono la psicologia positiva e la psicologia applicata. In ogni campo, infatti, abbiamo risultati da raggiungere, è importante sentirci all’altezza, misuriamo la prestazione, spesso affrontiamo situazioni di ansia o stress, siamo inseriti in un gruppo e la comunicazione strategica è fondamentale.

Definire i propri obiettivi a breve, medio e lungo termine, imparare a gestire l’energia e la nostra capacità di attivazione, allenare la concentrazione e la sincronia tra mente e corpo, controllare il nostro dialogo interno e il pensiero positivo, migliorare il senso di autoefficacia sono alcuni aspetti sui quali si lavora insieme all’atleta o al professionista. Naturalmente tenendo sempre conto della persona – individuo che è protagonista del percorso di crescita.

Lo sport, insomma, diventa un’ottima metafora di vita e gli strumenti pratici del Mental Training, ossia dell’allenamento mentale, funzionano molto bene anche applicati al mondo del lavoro o della sfera personale.

  • Durante il periodo pandemico che è ancora in corso, purtroppo, le preoccupazioni principali hanno riguardato il livello sanitario,  quello economico e  altri settori correlati, ma l’orizzonte psicologico è stato drammaticamente messo tra parentesi se non a margine. Secondo lei quali sono le modalità adatte per farlo tornare centrale?

Verissimo, sono state giustamente prese precauzioni sanitarie, senza tuttavia considerare adeguatamente le ricadute psicologiche che tali precauzioni avrebbero avuto sulle persone. In una sorta di atteggiamento miope, si è considerato l’individuo come entità puramente fisica: come se si fossero dovuti salvare “corpi”. Grazie alla ricerca, invece, noi sappiamo che l’essere umano è un essere biopsicosociale, ossia che la sua salute e il suo sviluppo dipendono dall’interazione tra la componente biologica, quella psicologica e quella sociale appunto. Una mente serena ha la capacità di attivare il sistema immunitario, mentre emozioni negative possono accelerare il decorso di una malattia e favorire l’insorgenza di malesseri psicosomatici come ulcera, ipo o ipertiroidismo, artrite, dolori lombari, torcicollo, reumatismo psicogeno, psoriasi, ecc. Durante la pandemia sono aumentati notevolmente i casi di disturbi del sonno, disturbi alimentari, ansia, attacchi di panico, aggressività, difficoltà relazionali. Senza parlare dell’incremento di violenze domestiche e casi di suicidio.

Secondo uno studio condotto dall’AISIC (Associazione Italiana contro lo Stress e l’Invecchiamento Cellulare) e dall’Università̀ La Sapienza, il 70% delle morti in Italia sarebbe dovuto a malattie causate da stress. I costi economici connessi alla condizione di stress incidono in modo rilevante sui bilanci nazionali: in Europa la spesa complessiva è di circa 200 miliardi di euro con un costo a persona di 404 euro. Attuare misure preventive, consentirebbe non solo di migliorare il benessere individuale e collettivo, ma anche di ridurre la spesa sociale.

Occorre un’azione congiunta tra educazione alla salute e politiche relative alla salute che ne garantiscano la realizzazione, attraverso il sostegno e il supporto anche economico. Certo recuperare la centralità dell’aspetto psicologico nel processo di salvaguardia della salute è oggi la sfida che ci dobbiamo assumere noi psicologi per primi. Essere più divulgativi, più vicini a chi, per cultura o per impossibilità, non cercherebbe aiuto, diventare una figura di riferimento accessibile all’interno delle scuole e anche delle società sportive, che rappresentano gli ambienti ideali in cui sviluppare la cultura della cura del sé. La chiave di volta è investire nella prevenzione.

La chiave di volta è investire nella prevenzione.

  • Lo sport ha vissuto due situazioni parallele: quello professionistico è riuscito a sopravvivere ma le categorie meno risonanti e quelle amatoriali ne hanno fatto le spese. Cosa hai constatato e quali sono le ricette per recuperare terreno?

In questi mesi ho osservato grande sofferenza ma anche molto fermento e voglia di ripartire più preparati di prima. Molte ASD hanno avuto la forza di utilizzare questo tempo sospeso, di stop forzato, per investire in strutture nuove e formazione dello staff. La via per recuperare terreno è, come in ogni campo, fare la differenza. Offrire un servizio eccellente, capace di rimettere al centro dell’attività sportiva il divertimento dei ragazzi e il loro sviluppo fisico e cognitivo. Garantire dialogo e supporto ai genitori, ma anche mister e preparatori forti non solo dal punto di vista tecnico. Insomma, imparare a fare squadra, quella cosa che vogliamo insegnare ai ragazzi e, che a volte, non siamo in grado di fare noi adulti.

Ci tengo a sottolineare che il grande problema delle ASD, anche prima della pandemia, è il drop-out, ossia l’abbandono precoce. In Italia, intorno ai 13-14 anni, circa il 35% dei ragazzi lascia lo sport. Questo è dovuto principalmente all’utilizzo di sistemi oppressivi, allenamenti eccessivamente “scientifici” o tecnici, ripetitività e noia, agonismo esasperato e centrato solo sul concetto di vittoria, aspettative e pressioni esterne, perdita totale della dimensione ludica.

Il ruolo dei tecnici è cruciale in questo senso ed è profondamente cambiato nel corso degli anni. Non si tratta più di preparare semplicemente gli atleti da un punto di vista fisico, tecnico o tattico, ma di intervenire su fattori motivazionali e fornire strumenti per aiutarli a fronteggiare eventuali situazioni di stress, anche fuori dal campo. L’allenatore è diventato un punto di riferimento e un modello di identificazione per i suoi ragazzi, sia sul piano agonistico, sia sul piano personale, umano.

Prendere consapevolezza di questo significa attrezzarsi non solo per recuperare terreno, ma soprattutto per contribuire positivamente alla crescita di nuove generazioni, forti.

  • Il pensiero positivo, una branca affascinante per l’interazione fra corpo e mente. Quali sono le chiavi mentali delle tue attività?

Dico sempre che il pensiero è un paradosso: perché di fatto, essendo pensiero, esiste solo nella nostra testa è aleatorio, inconsistente, eppure, se lo alimentiamo, se lo “pensiamo” ripetutamente fino a fissarlo dentro di noi, può diventare onnipotente, trasformarsi nella nostra realtà. La profezia che si autoavvera. Accade per un meccanismo molto semplice, a pensarci bene: il principio di coerenza.

Ogni nostro comportamento è determinato dall’atteggiamento con cui ci poniamo e, a sua volta, ogni atteggiamento è il risultato di ciò che pensiamo. Qualunque nostra azione nasce da un giudizio, una valutazione, un’idea, un pensiero appunto. Scoprire questo meccanismo significa non più subirlo passivamente, ma invece imparare a scegliere consapevolmente.

Troppo spesso siamo in balia del nostro pilota automatico e reagiamo d’impulso, salvo poi recriminare a noi stessi ciò che abbiamo detto o fatto. Troppo spesso ci lasciamo logorare da pensieri ruminanti che determinano stati d’animo tristi o anche rancorosi, allontanandoci dalle persone e dai nostri obiettivi.

Se pensiamo di non essere all’altezza, non riusciremo mai a farcela. Ma se scegliamo consapevolmente di pensare positivo, porteremo la nostra attenzione all’operatività, troveremo la via, saremo concentrati sulla pianificazione e sull’attuazione; e di conseguenza, avremo ottime probabilità di farcela. Il primo passo per allenare il pensiero positivo è lavorare sul proprio focus of control, ossia prendere atto che noi stessi siamo responsabili di ciò che ci accade: non potremo mai controllare tutto, ma, in ogni situazione, avremo sempre il grande, immenso potere della scelta. A partire dal pensiero che alimentiamo, fino ad arrivare al comportamento che metteremo in atto.

Legata al pensiero positivo, c’è poi la metodologia del Self Talk, ossia prendere consapevolezza e guidare il nostro dialogo interno: cosa ci diciamo prima di affrontare una competizione, o una nuova sfida professionale, quali parole utilizziamo? Parlare positivo è fondamentale, usare affermazioni ed eliminare le negazioni, togliere dal nostro vocabolario due verbi tossici: “dovere” e “potere”. “Dovere” genera ansia, induce a pensare ad una costrizione e solitamente al verbo dovere associamo compiti onerosi. “Potere” genera dubbio, potrei farcela ma potrei anche non farcela.

Un’altra strategia mentale straordinaria è l’utilizzo delle tecniche di respirazione per regolare il livello di energia e gestire ansia, concentrazione e rilassamento.

Insomma, la mente è davvero potente, se impariamo a conoscerla.

Il primo passo per allenare il pensiero positivo è lavorare sul proprio focus of control, ossia prendere atto che noi stessi siamo responsabili di ciò che ci accade: non potremo mai controllare tutto, ma, in ogni situazione, avremo sempre il grande, immenso potere della scelta.

  • Quali sono i percorsi che consentono un dialogo ottimale fra sport e psicologia?

Come abbiamo già sottolineato la psicologia dello sport nasce dalla psicologia positiva, per questo il suo obiettivo principale è quello di enfatizzare le risorse e le potenzialità dell’individuo, anziché le carenze, i deficit e le patologie. Privilegiare cioè la promozione  della salute anziché la cura.

Le principali aree di indagine della psicologia all’interno del mondo dello sport riguardano l’analisi dei processi cognitivi coinvolti nell’apprendimento e nel controllo delle abilità motorie, l’analisi dei processi motivazionali, il ruolo dell’allenatore, l’area relazionale e le dinamiche di gruppo, i processi di autoregolazione ed attivazione, ansia e stress, infanzia e settore giovanile ma anche benessere e salute.

Principalmente le domande dal campo riguardano:

  • il settore giovanile (Rapporto con i genitori – Lettura dei bisogni del giovane atleta – Comunicazione e proposta metodologica adeguata allo sviluppo per la prevenzione dell’overtraining – Motivazione e prevenzione del drop-out – Valorizzazione del potenziale e del talento individuale).
  • L’alto agonismo (Mental training – Gestione Stress – Motivazione e prevenzione del burnout – Preparazione alle competizioni – Sviluppo del team spirit – Rientro in campo dopo l’infortunio).
  • Le società sportive (Rafforzamento dell’identità societaria – Rapporto con genitori ed atleti Coaching a Dirigenti e Tecnici – Interventi per migliorare la comunicazione e la gestione delle relazioni esterne).

Nello specifico, i percorsi di Mental Training, ossia di allenamento mentale, nascono dall’applicazione della psicologia positiva al mondo dello sport. La durata può variare in funzione degli obiettivi che si stabiliscono insieme e mirano sempre all’autoconsapevolezza e ad una totale autonomia dell’atleta.

Si tratta di allenare lo sportivo ad utilizzare strumenti e strategie cognitivo-comportamentali che, una volta apprese, diventeranno routine e abitudine. I nuovi automatismi funzionali gli consentiranno di concentrarsi poi in gara solo esclusivamente sull’esecuzione del gesto tecnico.

Si inizia sempre con uno screening psicodiagnostico, fondamentale per comprendere le caratteristiche di personalità e gli stili cognitivi dominanti, nonché per definire insieme obiettivi, durata e natura del percorso da intraprendere. Non esisterà mai infatti un Mental Training uguale ad un altro: ognuno sarà costruito su misura, in funzione dell’atleta e delle sue peculiarità.

Il modello al quale faccio riferimento è il costrutto multidimensionale del FLOW, letteralmente “flusso”, ossia il completo coinvolgimento mente e corpo sull’attività svolta, in condizioni di perfetto equilibrio percepito tra le difficoltà del compito e le proprie abilità individuali. Come quando un musicista diventa un tutt’uno con il suo strumento, perde la concezione del tempo, abbandona il senso del controllo perché tutto sembra fluire da sé in una sensazione di perfetta armonia.

  • In base alla tua esperienza, potresti dire che le persone hanno reagito in maniera adeguata alle problematiche pandemiche o hanno acuito i disagi che già ereditavano prima dello scoppio di questa tragedia?

Come ogni situazione critica, anche la pandemia ha rivelato all’uomo la sua vera natura. Alcuni hanno reagito bene, ripianificando le proprie attività nel tempo, mantenendo alcune buone routine, concentrandosi su ciò che potevano fare e sul come poter investire quel tempo sospeso. Molti hanno colto l’opportunità di investire su loro stessi, seguire corsi di formazione e integrare le proprie competenze (esistono corsi professionalizzanti gratuiti o finanziati in parte, che si possono seguire online), qualcuno, consapevole di averne necessità, ha chiesto aiuto e ha intrapreso un percorso entusiasmante alla scoperta di sé, qualcun altro si è reinventato osservando le nuove esigenze emergenti. Tutte queste persone sono state capaci di trasformare una criticità in una opportunità. Poi c’è stato chi, al contrario, si è ritrovato smarrito e non è riuscito a reagire, rimanendo intrappolato in un atteggiamento passivo di attesa o peggio catastrofico di ansia e panico. Infine poi, c’è stato chi ha enfatizzato atteggiamenti aggressivi e in alcuni casi anche violenti.

Sì, quello che ho potuto osservare è che la pandemia non ha reso tutti migliori: ha reso ciascuno a se stesso, per quello che è veramente.

La pandemia non ha reso tutti migliori: ha reso ciascuno a se stesso, per quello che è veramente.

  • Una delle sfide maggiori e indubbiamente coinvolgenti – immaginiamo – si sostanzia nell’infondere serenità alle persone attraverso il rilassamento. Puoi descriverci gli elementi fondamentali che guidano il tuo intervento?

Ricercare la serenità è forse davvero oggi l’obiettivo più ambito, giustamente. Perché la mancanza di serenità corrisponde spesso ad un sentimento di forte stress.

Quante volte ci capita di essere così concentrati sul risultato che ci siamo prefissati, da perdere paradossalmente il contatto con quello che stiamo facendo per raggiungerlo? E quante volte ci capita di affannarci tra un’attività e l’altra, senza prestarvi effettivamente attenzione, al punto da non raggiungere quasi mai l’obiettivo? Quante volte gli echi di quel litigio nella testa ci hanno rovinato l’intera giornata? Quante volte ci capita di consumarci in pensieri inutili o addirittura negativi. Fisicamente siamo qui, adesso, in questo spazio e con la mente siamo altrove, lontano, in un altro luogo e in un altro tempo, forse ieri o forse domani.

Come se avessimo il dono dell’ubiquità, viviamo continuamente sospesi tra un passato che non c’è più (cosa è accaduto prima) e un futuro che non c’è ancora (cosa accadrà poi).

Rimuginiamo continuamente su quello che è stato e continuamente facciamo congetture su quello che sarà, logorati dall’ansia di ciò che pensiamo possa accadere.

Esistono diverse tecniche di rilassamento, dal training autogeno al controllo del respiro utilissimo nella gestione degli attacchi di panico ad esempio.

Personalmente ho potuto osservare la straordinaria efficacia della Mindfulness, che letteralmente significa “Consapevolezza”. La Mindfulness consiste in una tecnica psicologica di concentrazione, finalizzata a riportare la mente al presente, intenzionalmente e in maniera non giudicante, a disinserire il pilota automatico, a imparare a percepire più che analizzare. Non è quindi una meditazione trascendentale per “svuotare la mente” (peraltro obiettivo utopistico perché la nostra mente è in perenne attività), ma un vero e proprio protocollo scientifico validato e messo a punto dal Prof. Jon Kabat-Zinn (Mediacl School, University of Massachussets, USA) espressamente per la riduzione dello stress. Ma la pratica porta benefici non solo in termini di riduzione dell’ansia, della depressione e dell’irritabilità, migliora anche la concentrazione, e la memoria, velocizza i tempi di reazione, aumenta la resistenza fisica e mentale, migliora la qualità dei rapporti interpersonali, rinforza il sistema immunitario e migliora la qualità del sonno.

Il protocollo base prevede otto incontri con cadenza settimanale. Ogni incontro consiste in un momento di pratica insieme seguito da un secondo momento di condivisione volontaria dell’esperienza. Gli incontri possono essere sia individuali sia di gruppo. Al termine dell’incontro viene inviato l’audio guida della pratica svolta insieme così che la persona possa continuare per tutta la settimana in autonomia.

Viviamo continuamente sospesi tra un passato che non c’è più (cosa è accaduto prima) e un futuro che non c’è ancora (cosa accadrà poi).

  • Quale è lo stato dell’arte dello stress e delle tensioni negative all’interno della popolazione italiana secondo il tuo background?

Come dicevo all’inizio e come testimoniano le ricerche, lo stress rappresenta una grave fonte di rischio per la nostra salute, acuita ulteriormente dalla pandemia in questi ultimi due anni. La crescente preoccupazione, l’incertezza verso il futuro, la precarietà del lavoro, l’informazione a tratti catastrofica a cui siamo sottoposti, ha destabilizzato e reso più fragili, portando in certi casi ad un esaurimento delle energie. E l’energia è indubbiamente la nostra risorsa più grande. Imparare a gestire l’energia, fisica e mentale, è la chiave di volta per imparare a stare bene.

L’eccesso di pensiero è uno dei mali più insidiosi dell’umanità contemporanea, il nemico principale del benessere psicofisico e delle relazioni. Il continuo rimuginare di una mente agitata sottrae energie preziose a tutto l’organismo. Il risultato è quello che comunemente definiamo stress e le conseguenze si traducono o in comportamenti di evitamento, chiusura e isolamento sociale, oppure in comportamenti aggressivi rivolti verso gli altri o verso se stessi.

Mai come in questo momento abbiamo bisogno di speranza, di parole buone capaci di curare. Fabrizio Benedetti, professore ordinario del Dipartimento di neuroscienze dell’università di Torino, grazie ai suoi esperimenti, ha potuto dichiarare che “il mezzo più importante che abbiamo per infondere speranza siano le parole: parole empatiche, di comprensione, accoglienza, fiducia, motivazione”.

La scienza quindi ci dice che “le parole agiscono sul nostro cervello esattamente come fanno i farmaci, attivano le stesse vie biochimiche della morfina e dell’aspirina. Innescano gli stessi meccanismi e, in questo modo, si trasformano da suoni e simboli astratti in veri e propri strumenti capaci di modificare mente e corpo”.

Prendere consapevolezza di questa azione neurofisiologica, è il punto di partenza per ripensare anche la comunicazione mediatica, che, tra canali tradizionali e social media ricopre oggi un ruolo da protagonista, di grande responsabilità, nella diffusione di ansia e stress, nell’alimentare tensioni negative, nel diffondere sfiducia e malessere.

Imparare a gestire l’energia, fisica e mentale, è la chiave di volta per imparare a stare bene.

  • Corpo, mente, anima. La ricerca di una sinfonia perfetta. Come interviene la psicologia?

La psicologia considera la persona come un essere integrato, per questo in ogni suo intervento c’è sempre la connessione dei tre aspetti. Si parla di “Embodied cognition”: la mente ha un corpo e, d’altra parte, già gli antichi sostenevano l’idea della mens sana in corpore sano.

Le emozioni, l’aspetto che indubbiamente ci rende più umani, nascono nel cervello e si manifestano nel corpo. Una delle attività principali della psicologia è proprio supportare le persone nel migliorare la capacità di riconoscere, accettare e dare un nome alle proprie emozioni e poi scegliere con maggiore consapevolezza il comportamento più funzionale in ogni situazione, in ogni contesto, rispetto all’interlocutore e all’obiettivo. Lo scopo è rivelare all’individuo la meravigliosa persona che è nel profondo, tutte le sue risorse interne, aiutandolo così a percorrere la strada verso l’autorealizzazione.

  • Ti chiediamo una fotografia della tua tipologia di giornata?

Prima di essere psicologa, sono moglie e mamma di due ragazzi adolescenti: Giovanni ha 17 anni ed Elisabetta 14. In più abbiamo un cagnolino e presto altri due cuccioli in arrivo. Accanto a noi abitano anche i miei genitori, pilastri essenziali, esempi di vita e di valori rari. A loro e a mio marito Massimo devo senza dubbio tutta la mia realizzazione come donna e come professionista.

La mia giornata inizia dunque circondata dagli affetti più cari, quelli che danno la carica e la grinta per affrontare qualunque situazione, prosegue con il mio momento di Mindfulness e il pilates. Poi gli impegni lavorativi, tra formazione, consulenze e mental training. A volte le giornate sono molto lunghe e si concludono a tarda sera, ma sempre con un racconto, una confidenza, una risata o una condivisione familiare. Uno dei momenti più belli è quello in cui raggiungo i miei ragazzi in camera, loro sono ormai nel letto, pronti a dormire, con la luce spenta, e, protetti dal buio, ci ritroviamo a parlare di emozioni, di vissuti, di desideri, a volte anche di paure. Senza dubbio il momento più coinvolgente e  costruttivo di tutta la giornata, quello in cui imparo di più, quello di cui sono più grata.

  • Quali sono le tue speranza per il futuro dell’area psicologica all’interno della nostra Penisola?

Sogno di vedere un Italia più attenta agli aspetti psicologici. Una maggiore consapevolezza che porti all’integrazione delle discipline. Viviamo ancora guidati troppo dal mito della razionalità contrapposta alle emozioni, dal mito dell’homo economicus e dall’homo juridicus. Ma la ricerca e la realtà ci dimostrano che ogni nostra scelta, anche quella che pensiamo essere la più razionale, il risultato di un’attenta analisi costi/benefici, in effetti è sempre una scelta emozionale. Saranno sempre le emozioni a dirci quali sono le cose che ci piacciono e ci fanno stare bene, i benefici appunto, e quali le cose che non ci piacciono, ci fanno stare male, ci costano fatica, vogliamo rifuggire: i costi. Questo, chi si occupa di marketing lo sa bene. Le emozioni sono uno straordinario mezzo di comunicazione, verso noi stessi e verso gli altri. Chi ha subito lesioni cerebrali ed è incapace di provare emozioni, è anche incapace di effettuare qualsiasi tipo di scelta, non ha più la percezione del rischio e commette azioni avventate.

Per questo sogno di vedere percorsi di empatia e intelligenza emotiva nelle scuole primarie: come si insegna la matematica e le lingue, occorre trasmettere ai ragazzi le strategie per imparare a relazionarsi con loro stessi e con gli altri.

La mia speranza infine, è quella di diffondere e applicare sempre di più la psicologia positiva, i concetti di valorizzazione e di benessere, non solo di cura delle disfunzionalità.  Les Brown dice: “non chiedi aiuto perché sei debole, ma perché vuoi continuare ad essere forte”.

Mi piacerebbe dare dignità ad una disciplina, quella psicologica, tanto importante quanto ancora sottovalutata. E pensare che la scienza dell’uomo dovrebbe essere la più valorizzata, se vogliamo essere uomini e donne migliori.