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Le emozioni nel contesto lavorativo

L’opposizione tra ragione ed emozioni è, ancora oggi, uno dei più diffusi pregiudizi della nostra società.

Se ci fermiamo a riflettere, tutti siamo d’accordo nel condividere il fatto che al lavoro le persone si arrabbiano, litigano con il computer, discutono con i colleghi, hanno paura di un procedimento disciplinare, attendono una promozione… e poi sono anche felici, entusiaste per un traguardo raggiunto, hanno aspettative rispetto al loro futuro, si innamorano, ecc… Lo sappiamo, è così, capita quotidianamente a ciascuno di noi.

Perché, il luogo di lavoro è intriso di emozioni, esattamente come qualunque altro posto della nostra vita: solo il fatto di stare a contatto con altri esseri umani, per otto ore al giorno, rende estremamente emozionale l’esperienza lavorativa.

E in più, questo “stare a contatto”, crea il fenomeno del contagio: ci si influenza a vicenda, condividendo del tempo con i colleghi, ascoltando i loro umori e osservando i loro “modi di essere”. Tutto ciò determina il clima lavorativo in cui ci avventuriamo ogni giorno e il clima lavorativo, a sua volta, determina la nostra produttività in termini di qualità e di quantità. Aspetto a cui le organizzazioni tengono sempre molto e prestano parecchia attenzione.

Eppure la nostra cultura ha sempre cercato di “scacciare” le emozioni dal luogo di lavoro, preferendo ed enfatizzando, sin dagli anni della scuola, l’approccio razionale come l’unico possibile per essere efficaci e risolvere i problemi. Come se una cosa escludesse automaticamente l’altra. Non puoi essere razionale se provi emozioni.

Tanto che manifestare le proprie emozioni è spesso vissuto come un segno di debolezza, da lasciare, al massimo, all’ambito privato degli affetti famigliari e talvolta neanche lì. Cresciamo i nostri figli con l’idea che essere forti significhi tenere fuori dalla propria vita ogni tipo di emozione. Solo i deboli, esprimono emozioni.

Peccato, che allo stesso tempo, il mondo del lavoro richieda esplicitamente una grande capacità emozionale a tutte le figure professionali: il venditore deve essere sempre entusiasta, la receptionist gentile e sorridente, i membri di un team disponibili e collaborativi, i manager decisi e volitivi, i responsabili assertivi ed empatici, e così via.

Allora come possiamo risolvere questa contraddizione e ridare dignità alle emozioni, nella nostra vita lavorativa e privata? Occorre riconoscere consapevolmente il ruolo centrale che le emozioni ricoprono nei processi di scelta, di presa di decisione, all’interno delle relazioni umane, rispetto al senso di autocontrollo, di altruismo e di generosità.

Per imparare, infatti, a comportarci in modo veramente razionale, noi abbiamo assoluto bisogno di ascoltare, riconoscere, capire e gestire le nostre emozioni.

Perché le emozioni sono essenzialmente una forma di comunicazione: rivolta prima di tutto a noi stessi: indicano come ci sentiamo di fronte a un certo evento, ma rivolta anche agli altri: perché mostrano quello che ci interessa, quello che ci fa piacere, oppure quello che odiamo o detestiamo. Ci indicano dove si orienta il nostro dolore, ci dicono in quali situazioni possiamo farci coinvolgere e quali sono quelle da evitare.

E non esistono emozioni buone ed emozioni cattive. Ogni emozione per il fatto stesso di essere una risposta della nostra psiche ad una situazione esterna, è positiva, è giustificata e ha un senso. Non giudichiamola. Riconosciamola e accettiamola.

Quello che possiamo e dobbiamo imparare a modulare è il comportamento manifesto che scaturisce dalle emozioni vissute. Controllare il nostro atteggiamento e le azioni che mettiamo in atto nei confronti degli altri: ecco, qui si esercita la vera positività o negatività.

Il vero nocciolo della questione, non è l’emozione in sé, ma il comportamento che esprimiamo nei confronti degli altri.

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L’ideazione e la strutturazione del comportamento infatti nascono dall’emozione provata rispetto allo stimolo ricevuto. Ogni emozione è sempre legata ad uno stimolo, che viene percepito e interpretato dal nostro cervello, in base ai suoi schemi di riferimento (esperienze, pregresse, stato d’animo attuale, familiarità o meno con lo stimolo stesso, percezione di sé, ecc.).

Dobbiamo pensare dunque che sia proprio lo spazio tra l’emozione e l’ideazione del comportamento da attuare, il momento in cui esprimere il nostro grande potere di scelta.

“Esprimere la nostra competenza emotiva, ossia la capacità di gestire consapevolmente e positivamente il proprio comportamento in una situazione sociale che provoca emozioni.”

(Francesca Romana Puggelli)

La buona notizia è che la competenza emotiva si può allenare. Partendo dall’alfabetizzazione delle emozioni, ossia proprio dalla capacità di dare un nome a ciò che sentiamo e proviamo in noi. C’è una differenza abissale tra lo stress e la rabbia, o la delusione, o l’ansia, e se non possiamo definire con precisione ciò che sentiamo, diventa difficile prenderne le distanze e comunicare in maniera adeguata.

Questa difficoltà, con la quale milioni persone lottano ogni giorno, crea molti costi reali. Le difficoltà nel dare un nome alle proprie emozioni, sono associate a scarsa salute mentale, insoddisfazione professionale e relazionale, sintomi fisici come il mal di testa e il mal di schiena. Come se le emozioni si esprimessero fisicamente piuttosto che verbalmente.

È anche vero che quando le persone non riescono o non possono esprimere chiaramente i propri sentimenti con le parole, l’unica emozione che si manifesta, forte e chiara, è la rabbia. e questa non aiuta certo a mantenere sano l’ambiente di lavoro.